Avevo venti anni e abitavo nel cuore di Padaniacity, in uno studentato sito in via Monte Cengio e per questo motivo ovviamente denominato da tutti “montecengio” (tutto attaccato, naturalmente: vivo a montecengio, vado a montecengio, c’è festa a montecengio etc). Qualcuno a un certo punto tirò fuori da un balcone la scritta MonteChange, e da allora fu proprio Monte Change.
Montechange era un luogo storico per il movimento. Si diceva che proprio là fosse scoppiata la pantera padana. Le cinque gloriose palazzine che costituivano il complesso erano state, negli anni ottanta e novanta, il punto di partenza di manifestazioni, cortei, feste, lotte, sbronze di gruppo e accoppiamenti selvaggi.
Al tempo in cui ci abitavo io le cose non erano di molto cambiate. Ogni palazzina era composta di 8 appartamenti, ognuno per 11 persone. Quindi teoricamente in ogni palazzina avrebbero dovuto viverci 88 studenti. In realtà a montechange praticavamo diffusamente il subaffitto e, molto più spesso, l’ospitalità a chiunque si presentasse alla nostra porta, indi per cui eravamo molti, molti di più. Quanti, non è dato saperlo, ma un giorno contai nel mio appartamento 20 inquilini.
Quando un appartamento di montechange proclamava la festa si creava una mobilitazione generale. La notizia veniva diffusa nelle piazze all’ora degli spritz (eh si, perchè a quel tempo a Padaniacity si poteva ancora prendere lo spritz in piazza), delegazioni automunite andavano a comprare nella cantina di fiducia circa un centinaio di litri di vino, le ragazze cominciavano a prepararsi dalla mattina e insomma, altro che ballo di fine d’anno, le feste di montechange erano veramente una rivoluzione, sapevi come ci arrivavi e non sapevi se, e come, te ne saresti andato. Carovane di studenti in bicicletta cominciavano a migrare dalla piazza verso lo studentato intorno alle nove di sera, qualcuno si avventurava a piedi, i motorizzati offrivano gentilmente il posto di dietro all’amico del cuore o alla fanciulla con cui avrebbero desiderato copulare nottetempo, pochissimi gli automuniti. Inutile dire che non tutti quei mezzi sarebbero stati ritrovati alla fine della festa.
E a proposito di ciò vorrei narrare l’episodio della bici di Fedepì, la nostra compagna d’appartamento altrimenti nota come Pollyanna. Il giorno dopo una desta Fedepì ci confessò di non trovare più la sua bici. Normalissimo, soprattutto dopo una festa, vedrai Fedepì che te la vendono in piazza per quindicimilalire entro una settimana. Dopo tre giorni Fedepì, guardando fuori dalla sua finestra, scoprì che la sua bicicletta se ne stava appollaiata su un albero, probabilmente dalla notte della festa.
Fine dell’aneddoto.
Le feste di montechange avevano come nucleo un appartamento (quello che proclamava la festa), all’interno del quale giacevano cadaveri di damigiane di vino mentre un dj improvvisato metteva le nostre canzoni preferite. La scaletta seguiva un crescendo sentimentale e politico, poiché eravamo ragazzi che avevano fatto il movimento, e il massimo della commozione e della partecipazione danzereccia veniva raggiunto durante rigurgito nella versione reload, gimme the power dei molotov e, soprattutto, curre curre guagliò, che veniva cantata in coro ri-go-ro-so, manco si fosse trattato de l’internazionale. Alla fine della canzone in molti, ubriachi e felici, con l’odore del movimento nelle narici, ci abbracciavamo asciugandoci la lacrima della vendetta.
Fuori dall’appartamento-discoteca, nei corridoi, per le scale e nel cortile, una quantità imprecisata e imprecisabile di gente sostava bevendo, fumando, assumendo innocentemente droghe leggere (che erano gli anni in cui ci illudevamo di procedere verso la legalizzazione, porcaputtana) e copulando con fantasia.
La festa finiva quando eravamo stanchi o quando arrivava la polizia (notare la rima, nds).
Questi erano i giorni di montechange. Si stava in aulastudio come matti fino alle sette di sera. I computer non ce li aveva nessuno e molti di noi non avevano manco l’indirizzo e-mail. La tesi, se la facevi sul pc, la mettevi sul dischetto, e giravano terribili leggende metropolitane di laureandi che avevano lasciato l’unico floppy sul cruscotto della macchina, al sole, e il floppy si era smagnetizzato, addio tesi.
Alle sette di sera l’aula studio chiudeva e noi in una permanente primavera ci spostavamo in massa verso il centro della città, la piazza, che brillava di vita e di suoni e di voci, qualcuno metteva la musica ad alto volume, qualcuno mesceva vino. Il baretto all’angolo del salone era di proprietà di una famiglia di indigeni. Per duemilalire ti facevano un aperitivo speciale, la bomba, che ti faceva tornare a casa in condizioni imprecisate. Per milleccinquecentolire avevi lo spriss, aperol o campari? Io me lo pigliavo all’aperol, che era più femminile e poi a me mi piace di ciucciare l’arancia.
La rivoluzione la programmavamo ogni sera dal secondo spriss in poi e a volte il giorno dopo la facevamo davvero. Mi ricordo di una manifestazione in cui a un certo punto i compagni decisero di rompere il cordone e andare dove la poliss non voleva. Temevamo la carica. E in un momento, come scesa dal cielo, una compagna mingherlina prese le sue catene, mise il petrolio alle estremità e cominciò a danzare avanzando, in testa al corteo, da sola, nel silenzio e solo si sentiva swoof sfwoof le catene che volteggiavano e ciak ciak gli scarponi dei poliziotti che indietreggiavano e io dissi a una compagna copriti il volto, se non vuoi che tra due anni ti arrivi la convocazione per un processo.
La rivoluzione la facevamo ogni giorno nelle aule dell’università e nelle pause, rollando sigarette di tabacco, quello che stava nella custodia verde e gialla, che a quel tempo si fumava quel tabacco lì i le diana blu morbide, come facevo io, che giravo con una grossa maglia andina, i pantaloni di fustagno, gli anfibi sgarrupati e il borsello che era stato di mio padre.
La rivoluzione eravamo proprio convinti di farla quando distribuivamo in manifestazioni panini con la mortadella per millelire, quando preparavamo gli striscioni e alla manifestazione ci andavamo ridendo. Mi ricorderò sempre il sorriso del mio amico Punklu, che al tempo ci aveva dei capelli riccissimi che tendevano verso il cielo e portava sempre un maglione di lana sdrucito e scarpe da ginnastica, mi ricorderò sempre del suo sorriso vitantò andiamo in manifestazione, vuoi una sigaretta? Mi ricorderò del suo sorriso e me lo tengo, prezioso, perchè ancora adesso, le rare volte che ci vediamo, lui mi regala quel sorriso segretissimo di chi ha ancora voglia di piantare gli alberi.
A montechange si entrava ogni anno una settimana prima dell’inizio delle lezioni. Tu facevi la richiesta e se eri abbastanza bravo e abbastanza povero ti davano l’alloggio per la durata dell’anno accademico. A luglio eri fuori casa, dovevi fare pacchi, stare due mesi dove capitava e aspettare la prossima assegnazione. Ogni anno la stessa stupidissima tarantella. Il giorno dell’assegnazione arrivavi -solitamente dopo una notte brava passata in un alloggio di fortuna- malamente pettinata davanti al direttore che ti diceva bentornata vitantonio quest’anno siamo in singola eh? Oppure allora quando ci laueriamo vitantonio? O anche quest’anno niente feste mi raccomando, quest’anno è cambiata l’aria vitantonio. Il direttore ti faceva mettere la firma e ti passava al portinaio che ti dava le chiavi della tua stanzetta. Il portinaio ti passava poi a marisa, un cubo di grasso un metremmezzo per un metremmezzo, biondatinta, ubriaca e grondante di sporco, che per l’occasione sfoggiava il grembiulone verde pulito, e ti dava un cuscino, le tende, la lampada e il coprimaterasso. Se volevi potevi rinunciare a uno di questi oggetti, per esempio alle tende o al coprimaterasso. Tu firmavi un foglio in cui dichiaravi che era vero che ti eri presa le tali cose e ti avviavi finalmente verso il tuo appartamento dove avresti ritrovato alcune delle coinquiline, alcune sarebbero state nuove, e il nuovo anno sarebbe cominciato con una equa divisione degli spazi in frigorifero e con la compilazione dei turni delle pulizie. Ogni appartamento aveva quattro bagni di cui due con doccia e due con bidet. I turni di pulizia si facevano il lunedì e giovedì. O ti toccava il grande sbattimento della cucina o ti toccava l’egualmente grande sbattimento del bagno e dei corridoi. Molte amicizie sono terminate a causa dei turni non rispettati. Il giorno in cui finalmente ti impossessavi della tua stanza cominciava la parte più bella dell’insediamento annuale ovvero la personalizzazione delle stanze. Io ogni anno me la facevo gialla per poi ritrovarla bianca l’anno dopo (il direttore me la faceva ridipingere ogni estate, forse sperando che l’anno dopo non ci sarei stata?) qualcuno addirittura riusciva a far entrare un letto matrimoniale in una singola; c’era chi trasferiva specchi, manichini, apparecchiature di ogni tipo, caschi da parrucchiera, mobili, mobiletti, veneziane, soppalchi…dopo 48 ore non esistevano più due stanze che fossero uguali.
A montechange io avevo una stanza singola che mi ero guadagnata per anzianità. In realtà all’inizio stavo in una doppia con una che studiava geologia e faceva la settimana corta, quindi era come stare in singola, ogni appartamento aveva undici sedioline e undici mobiletti manco si fosse trattato della casa degli undici nani. C’erano due lavatrici in tutto e ognuno aveva diritto a un turno settimanale da prenotare il lunedì in portineria. Si andava allora in portineria con una grossa sporta contentente i vestiti sporchi da sciacquare in arno e si attivava la lavatrice, a volte si scambiavano due chiacchiere col portinaio di turno, se si trattava di un portinaio simpatico. Con qualche appartamento avevamo relazioni con qualcun altro no, si andava un po’ ad elezione, a noi del c6, che eravamo tutte ragazze e piuttosto all’avanguardia dentro montechange, ci piaceva in particolare bazzicare i maschi del c8 ma anche e soprattutto sbavavamo appresso a quelli del d2 che, a dirla tutta, erano proprio delle bestie. Bellissimi, per carità, ma non ancora civilizzati. C’erano per esempio tra di loro tre croati che si distinguevano per bellezza e bestialità. Il giorno che la Croazia vinse contro l’Italia a pallone dal d2 volò giù un motorino. E nessuno ha mai capito di chi fosse.
Grandi casini e grande vita a montechange. All’ora di pranzo si prendeva tutti la bici e si andava a mangiare in mensa, alla sanfrance o alla pioics, e la mensa anche era una grande occasione per attaccare bottone, scoprire persone nuove, discutere socializzare etcetera. C’erano delle file a certe ore che arrivavano fino a via del vescovado, ti mettevi in fila a mezzogiornemmezzo e non sapevi quando ti avrebbero dato il tuo vassoietto col primo secondo contorno e yogurt o frutta. Io spesso mi portavo il tapperuer e il secondo me lo conservavo per cena, che non c’avevo manco una lira. Oppure si divideva il pasto con qualche compagno sfortunato che non ci aveva diritto al pasto gratis come noialtri borsisti.
Mentre facevi la fila potevi addirittura fare in tempo a studiarti un capitolo di storia del cinema o di teoria e tecnica della comunicazione di massa, oppure potevi chiacchierare osservare fumare fare il cazzo che ti pareva, lentamente progredivi verso il bancone dei vassoi, e quando finalmente arrivavi ovviamente il riso all’orientale era finito ed era rimasta solo la pasta al forno che, lo sapevano tutti, era meglio davvero non prendere, essendo composta variamente di tutti gli avanzi della settimana precedente. Ti toccavano l’insalata di sequoia e le carote di sughero dell’australia. Se eri fortunato c’avevi pure una mela imbalsamata che a mangiarla avresti fatto la fine di biancaneve. Ma in compenso andando in mensa si poteva rifornire la casa di tovaglioli, piatti, posate, bicchieri, e non è un caso che a montechange tutti gli appartamenti ci avessero gli stessi piatti.
Ecco non so come mai mi si è aperto questo rubinetto e adesso che è più di un’ora che scrivo debbo chiuderlo che altrimenti faccio tardi, stasera ci ho il laboratorio a Castello, che ho soprannomimato “il laboratorio del dopolavoro ferroviario” a causa della pigrizia dei partecipanti. Roba che uno si domanda che cosa ci vengono a fare.
Ma però mi rimane fortissimo questo ricordo e ci sono ancora molte cose da scrivere e lo so che prima o poi il rubinetto si riapre, quando meno me lo aspetto.